punto 6

Il punto

28 novembre 2020 - n. 6 

Come l’immagine che Giuseppe Arcimboldo fece dell’avvocato, del capitano, del giurista, anche l’immagine delle attività del Garante nazionale può essere pensata composta di più cose, molte delle quali anche non belle, ma che comunque danno la fisionomia complessiva della sua attività

Qualche doveroso numero del sistema penale

Nonostante i numeri della diffusione del contagio in carcere siano – giustamente – resi noti dal Ministero della giustizia sul proprio sito, non vogliamo deludere coloro che affidano a questa nostra più o meno settimanale pubblicazione l’informazione sull’andamento della diffusione del virus: oggi le persone detenute positive sono 882 e sono distribuite in 86 Istituti (sul totale di 192 strutture penitenziarie). Un numero alto – è vero – ma che va posto in relazione al fatto che, di esse, soltanto 65 presentano sintomi e 27 tra costoro sono trattate in ospedale. La valutazione complessiva è sostanzialmente non allarmante dal punto di vista strettamente medico, ma è invece da guardare con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi e, quindi, di una minore ‘densità’ delle persone ristrette e dunque di un numero di persone detenute sensibilmente minore, sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio, e che si deve misurare con un organico sempre al di sotto di quanto formalmente previsto.

A partire da queste considerazioni il Garante nazionale torna a sollecitare maggiore capacità di elaborare proposte normative che sappiano tutelare la salute di tutti, assicurare una positiva gestione delle strutture e della vita interna relativamente a chi in esse opera e chi vi è ristretto, garantire la sicurezza. Gli emendamenti proposti e che abbiamo illustrato nelle riflessioni de il punto delle ultime settimane vanno in questa direzione: le ribadiamo e continuiamo nella nostra interlocuzione con il Parlamento che in questi giorni lavora attorno alla riconversione in legge del decreto 137/2020.

Le visite del Garante nazionale

Questa settimana, il Garante nazionale ha fatto una visita alla Casa di reclusione di Padova, in seguito ad alcune criticità segnalate nell’ambito della necessaria e proficua collaborazione tra l’Amministrazione penitenziaria e il Terzo settore operante nell’Istituto. Come è noto, la Casa di reclusione di Padova rappresenta un importante punto di riferimento per le iniziative culturali, lavorative e sociali che si svolgono al suo interno in una prospettiva di dialogo con il territorio e di reinserimento delle persone detenute: una esperienza che va preservata, valorizzata e proposta quale modello positivo.

La delegazione del Garante nazionale – composta dal Presidente, da una Componente del Collegio e due membri dello staff – ha avuto modo di discutere più punti con il Direttore, il Comandante e la Vicecomandante di Reparto, con la Responsabile e diversi operatori dell’Area educativa, ribadendo tre principi essenziali per il consolidamento di una collaborazione tra i diversi ‘attori’ che operano nell’Istituto. La finalità, da tutti condivisa, è quella di una esecuzione penale pienamente ed effettivamente rispondente alla sua configurazione costituzionale. In primo punto è che la necessaria cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna a esso, deve rispondere sia all’esigenza di chiarezza della diversità dei ruoli e di rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico, sia del riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce, senza mai considerare il loro apporto come ‘ancillare’ e implicitamente di minore rilevanza.  Il secondo punto riguarda la riaffermazione della rilevanza e dell’autonomia della valutazione del percorso compiuto da una persona detenuta nel corso della sua esecuzione penale. Una valutazione che soltanto chi opera a contatto con la persona può esprimere, avendone riscontrato e sperimentato direttamente la partecipazione al percorso definito, senza essere influenzata da considerazioni esterne, provenienti da altri ambiti di analisi che incideranno solo successivamente per l’adozione di conseguenti decisioni: doverose informazioni, queste, che tuttavia, nel pieno rispetto della distinzione di ruoli, non devono incidere sulle valutazioni interne poiché il rischio di una sovrapposizione e di una confusione di pareri non giova alla costruzione di percorsi di possibile reinserimento. Infine – il terzo punto del proficuo confronto avuto – riguarda il principio per cui non è possibile che si interferisca con attività di supposto controllo in locali affidati a chi nell’Istituto opera produttivamente, con continuità e da molto tempo, senza che tali operazioni prevedano la doverosa informazione degli affidatari dei locali, la loro presenza all’operazione, la regolare autorizzazione della Direzione, la conseguente reportistica. Perché il rischio è che ciò possa configurarsi come una sorta di impropria attività simile a una forma di ‘perquisizione’ chiaramente esclusa dal nostro ordinamento e da ogni accordo di affidamento dei locali. Un episodio avvenuto nell’Istituto recentemente e portato all’attenzione anche del Garante nazionale può essere letto in questa chiave ed è stato importante acquisire dati in tal senso. Casualmente la visita è avvenuta proprio nel giorno in cui la Corte costituzionale si pronunciava (sentenza 252 del 26 novembre 2020) seppure in altro contesto, circa le stringenti regole a cui deve attenersi ogni perquisizione.

Nella prossima settimana, Il Garante nazionale, dopo aver già condotto quattro specifiche visite a rispettivi Istituti, invierà all’Amministrazione penitenziaria il proprio Rapporto tematico su quelle sezioni di Alta sicurezza 2 (As2) caratterizzate da una disomogeneità dei profili delle persone detenute. Una disomogeneità discendente da tre diverse tipologie di reati, legati a tre diversi macro-fenomeni: il radicalismo violento di tipo islamista, l’antagonismo politico sommariamente definito di tipo anarchico e quello residuale delle organizzazioni armate degli anni ’70 e ’80, costituito da un ristretto gruppo di protagonisti di allora tuttora detenuti. Nel corso delle visite alle quattro sezioni che rispondono a questa caratteristica ‘mista’ (negli Istituti di Ferrara, Terni, Rossano Calabro e Rebibbia femminile) sono emerse alcune criticità. Si tratta di situazioni diverse tra loro in cui vi è di fatto sempre una prevalenza numerica di una tipologia rispetto ad altre, rendendo così ancora più complessa la loro gestione nel pieno rispetto della finalità costituzionale della pena. Tanto più quando soltanto una o due persone di una determinata caratteristica sono poste in questo contesto del tutto diverso e distante per lingua, religione, cultura. Tale disomogeneità rende vago ogni riferimento a possibili percorsi di reinserimento.

Nella settimana prossima, infine, il Garante nazionale riprenderà le visite di tipo ‘regionale’, recandosi per più giorni in strutture diverse di una stessa porzione del territorio nazionale: Istituti detentivi, strutture sanitarie e socio-assistenziali e quelle in dotazione alle diverse Forze di Polizia del territorio visitato. La prossima pubblicazione de il punto darà una prima sommaria informazione di quanto visitato.

Il rinvio a giudizio per tortura

Per la prima volta, tre Ispettori e due Assistenti di Polizia penitenziaria sono stati rinviati a giudizio davanti al tribunale di Siena con l’accusa, tra le altre, di tortura: la nuova fattispecie criminosa (articolo 613-bis c.p.), introdotta nel codice penale nel 2017. Il contesto sono alcuni episodi che sono stati denunciati come avvenuti nel carcere di San Gimignano durante un trasferimento nell’ottobre 2018. La notizia ha immediatamente un sapore di tristezza perché è comunque triste ipotizzare tali comportamenti compiuti da chi ha in carico una persona in nome della collettività e nell’assicurare la sua custodia è chiamato anche ad assicurare la sua dignità e integrità fisica e psichica. È però, parallelamente, una notizia da cogliere positivamente perché indica sia la volontà di indagare a fondo la denuncia di comportamenti assolutamente incompatibili con il nostro sistema civile, prima ancora che giuridico, sia perché dimostra la fondatezza della posizione a suo tempo assunta dal Garante nazionale che ha sempre sostenuto che la nuova fattispecie, quantunque formulata in termini piuttosto involuti, rappresentava comunque un passo in avanti nell’accertamento della verità e nell’espressa volontà del nostro Paese di inviare chiari segnali d’inaccettabilità di tali comportamenti, qualora accertati. Il segnale che viene dal Tribunale di Siena va nella direzione di contrastare il rischio di impunità rispetto a tali comportamenti, impunità che talvolta può nascondersi dietro un male interpretato spirito di appartenenza a un Corpo, non più visto come espressione dei suoi valori, ma come velo difensivo anche di chi tali valori ha offeso.

Nei confronti dell’Italia, infatti, negli ultimi anni erano state accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo diverse violazioni sia dell’aspetto “sostanziale” sia di quello “procedurale” dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta, come è noto, la tortura e i trattamenti o pene inumane o degradanti. Tuttavia, la mancanza di una previsione normativa del reato di tortura aveva impedito all’Italia di perseguire in modo adeguato tali fatti. L’introduzione di un reato che chiaramente definisse la tortura e ne prevedesse adeguata sanzione era stata richiesta dalla Convenzione Onu contro la tortura e gli altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti: era il 1984. L’Italia l’aveva ratificata nel 1987, ma da allora e per una trentina d’anni questa richiesta era rimasta inevasa. L’adozione della legge n. 110 nel 2017 aveva sanato questa assenza, seppure con un testo controverso.

Il reato di tortura, come disegnato da quella legge, ha invece dato prova ora della sua possibile contestabilità. Per la prima volta, in un luogo di privazione della libertà e nei confronti di autorità pubbliche. Del resto, è chiaro ed è anche affermato dall’articolo 613-bis del codice penale, che i fatti di tortura commessi su persone affidate allo Stato e nelle mani di Autorità pubbliche sono più gravi rispetto a quelli che possono realizzarsi in altri contesti. La condanna in primo grado del medico dell’Istituto penitenziaria per non avere visitato e refertato la persona vittima di violenze, evidenzia l’importanza del ruolo del medico nella prevenzione di fatti di maltrattamento e torture. Un ruolo centrale che il Garante nazionale ha più volte sottolineato, anche nei pareri sulla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018.

Persone migranti

Dal monitoraggio del Garante nazionale sui Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) emerge il quadro di una macchina organizzativa che ha, in parte, colmato i ritardi rilevati in occasione della prima ondata pandemica in particolare mediante una maggiore saldatura con il Servizio sanitario nazionale e la regolare realizzazione di screening e verifiche sanitarie sulla popolazione detenuta.

Tutti i Cpr si sono dotati di spazi per l’applicazione di misure di quarantena precauzionale o di isolamento, anche se tali ambienti non sempre rispettano gli standard internazionali sotto il profilo della sicurezza e, in qualche caso, non consentono un pieno e libero accesso alla libertà di corrispondenza telefonica. L’ingresso nelle strutture avviene esclusivamente sempre previo tampone con esito negativo e in alcuni Cpr solo dopo un periodo di quarantena precauzionale. Tali misure sembrano aver contenuto il rischio di contagio. Infatti, solo due Cpr riferiscono di aver avuto casi di persone risultate positive. Sotto il profilo delle condizioni igienico-sanitarie, gli Enti gestori riferiscono la periodica sanificazione e igienizzazione degli ambienti detentivi. Infine, riguardo alle procedure di dimissioni, molto positiva sotto il profilo della tutela della salute individuale e pubblica è lo screening delle persone in uscita.

Permangono tuttavia, alcune criticità. Prime fra tutte l’esercizio della libertà di corrispondenza telefonica all’interno delle strutture di detenzione amministrativa, anche a causa di un’ampia difformità di prassi e regole organizzative. Per quanto riguarda i sistemi di videochiamata è emerso che, nella maggior parte dei Centri, l’utilizzo è limitato alla celebrazione delle udienze, in qualche caso ai colloqui con il difensore e alle audizioni con le Commissioni territoriali asilo. Un’unica struttura ha riconosciuto la possibilità di effettuare videochiamate ai familiari: si tratta di un segnale estremamente positivo che deve far riflettere su come in linea generale l’impatto dell’emergenza sanitaria sul diritto al mantenimento dei legami familiari e affettivi non sia stato mitigato con meccanismi compensativi, peraltro facilmente realizzabili considerato l’utilizzo di dispositivi di videoconferenza per esigenze di giustizia in quasi tutte le strutture. Preoccupa, inoltre, la mancata ripresa delle attività da parte di attori fondamentali per la tutela delle persone bisognose di protezione, come le associazioni contro la tratta di esseri umani.

Oggi le persone trattenute nei Cpr sono 450, un numero lievemente inferiore alle 455 presenti la settimana scorsa. Continua a salire anche questa settimana la capienza che ora si attesta a 661 posti. Sul fronte delle quarantene delle persone migranti sbarcate sul territorio italiano, sono 1195 le persone presenti a bordo delle cinque navi per la quarantena attualmente in funzione e 607 quelle alloggiate in strutture sul territorio. Infine, si registra un forte calo di persone presenti negli hotspot: 236 rispetto alle 894 della settimana scorsa, in particolare a Lampedusa dove il numero delle persone migranti (50) è sceso ampiamente al di sotto della capienza complessiva del Centro.

Il diritto all’autodeterminazione delle persone anziane

Nei giorni scorsi, la trasmissione “Le iene” ha trasmesso un servizio sul caso di una persona anziana ricoverata contro la sua volontà in una struttura residenziale per anziani e lì trattenuta. Si tratta di una situazione grave, di palese violazione del suo diritto all’autodeterminazione.

Al di là del clamore mediatico che la trasmissione ha sollevato, sono proprio queste le situazioni che il Garante nazionale sta monitorando e su cui esercita il proprio compito di vigilanza. La privazione della libertà di fatto di persone anziane o con disabilità è emersa in maniera evidente nel corso dell’emergenza Covid-19, con la chiusura delle strutture all’esterno e l’impossibilità per i familiari di incontrare e interfacciarsi con i propri cari. Sulla base delle tante segnalazioni giunte all’ufficio e degli esiti delle visite, il Garante nazionale ha aperto una interlocuzione con le Regioni al fine di trovare una linea che assicuri il diritto alla tutela della salute del singolo e della comunità e il rispetto dei diritti delle persone ospitate (e non trattenute) nelle strutture residenziali. Su tali problematiche sono in corso delle visite a strutture residenziali.

La commissione per i diritti umani

Nel precedente il punto avevamo dato la notizia della presentazione di un emendamento alla cosiddetta “legge europea 2019-2020” che proponeva l’istituzione di una Commissione nazionale per la promozione e la promozione deli diritti umani. Tale emendamento, tuttavia, è stato ritenuto inammissibile. Il Garante nazionale ritiene importante continuare l’impegno affinché anche l’Italia si doti di tale organismo, così come previsto.

Covid e carcere secondo la ricerca del Consiglio d’Europa

Il Consiglio d’Europa (Coe) ha attivato il progetto Space I-Covid-19 volto a monitorare gli effetti della pandemia su carceri, detenuti e persone sottoposte a probation in Europa, i cui risultati sono riportati sul sito dello stesso Coe (https://www.coe.int/en/web/portal/-/mid-term-impact-of-covid-19-on-european-prison-populations-new-study).

Dalla ricerca emerge la complessiva diminuzione della popolazione carceraria europea nel periodo dei lockdown di primavera: dal 1° gennaio al 15 settembre il tasso di detenzione medio è sceso del 4,6% (da 121,4 a 115,8 detenuti per 100.000 abitanti) nei 35 Paesi le cui amministrazioni penali hanno fornito i dati. La riduzione è stata causata da una serie di fattori, tra cui l’uscita dal carcere di alcune fasce di detenuti per prevenire la diffusione del Covid-19. I lockdown delle popolazioni europee, che a metà aprile erano in atto da solo un mese, sembrano aver contribuito a una tendenza di stabilità o riduzione dei tassi della popolazione carceraria. Al 15 aprile, in 17 amministrazioni penitenziarie (tra cui l’Italia) il tasso di detenzione era sceso di oltre il 4%; rimaneva stabile (tra -4 e 4%) in 29 amministrazioni penitenziarie. La Svezia, che non ha attuato il confinamento della popolazione, è stato l’unico paese in cui il tasso di detenzione è aumentato nel brevissimo periodo.

Il contributo dei lockdown alla riduzione della popolazione carceraria è avvalorato da un’analisi della situazione del periodo successivo. Il 15 giugno il numero di amministrazioni penitenziarie in cui i tassi detentivi erano diminuiti da gennaio è salito a 27, mentre 14 hanno mostrato trend stabili e solo Svezia e Grecia hanno riportato tassi superiori a giugno rispetto a gennaio. Durante l’estate e senza lockdown, la tendenza alla diminuzione nella popolazione carceraria si è invertita in 12 amministrazioni penitenziarie, che avevano tassi superiori il 15 settembre rispetto al 15 giugno. La Bulgaria (-13,2%) e il Montenegro (-7,7%) sono state le uniche due amministrazioni penitenziarie, tra le 36 che hanno fornito i dati, in cui il tasso di detenzione è sceso da giugno a settembre. Nel complesso, tuttavia, i tassi di popolazione carceraria a metà settembre erano generalmente inferiori a quelli dell'inizio del 2020.

Nelle quattro finestre cronologiche evidenziate, la media europea del tasso detentivo (ricordiamo che si tratta di un indicatore riferito al numero di detenuti per 100.000 abitanti) è progressivamente scesa e poi leggermente risalita: 121,4 al 31 gennaio, 116 al 15 aprile, 113,8 al 15 giugno e 115,8 al 15 settembre. Quanto all’Italia, negli stessi periodi si è registrato un tasso detentivo sempre inferiore a tale media: 100,9 al 31 gennaio, 91,3 al 15 aprile, 88,9 al 15 giugno e 89,9 al 15 settembre.

Secondo il direttore dello studio Marcelo Aebi, le tendenze europee possono essere spiegate da diversi fattori, tra cui la diminuzione dell’attività della macchina giudiziaria penale dovuta al lockdown, il rilascio dei detenuti come misura preventiva per ridurre la diffusione del Covid-19 e il calo della criminalità prodotto dal lockdown, che può aver ridotto le possibilità di commettere reati tradizionali. Questa spiegazione è supportata dalla tendenza opposta osservata in Svezia e dal fatto che la diminuzione della popolazione carceraria si è arrestata al termine del lockdown.

Lo studio riporta inoltre che almeno 3.300 detenuti e 5.100 agenti penitenziari hanno contratto il Covid-19 entro il 15 settembre nelle 38 amministrazioni penitenziarie europee che hanno fornito i dati.

 

Primo rapporto - Prisons and Prisoners in Europe in Pandemic Times: An evaluation of the short term impact of the COVID-19 on prison populations

(https://wp.unil.ch/space/files/2020/06/Prisons-and-the-COVID-19_200617_FINAL.pdf),

Secondo rapporto - Prisons and Prisoners in Europe in Pandemic Times: An evaluation of the medium-term impact of the COVID-19 on prison populations

 (https://wp.unil.ch/space/files/2020/11/Prisons-and-the-COVID-19_2nd-Publication_201109.pdf),