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Il sostegno del Garante nazionale alla Proposta di legge per il sostegno delle attività teatrali in carcere

di Mauro Palma

 

Nella mia esperienza internazionale come Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti – esperienza che si è protratta per molti anni – mi sono più volte dovuto misurare con le inadeguatezze del nostro sistema detentivo, spesso non corrispondente nella pratica a quanto delineato dalla Costituzione circa la finalità delle pene e ben formulato dall’ordinamento penitenziario.

Le critiche non riguardavano soltanto il superaffollamento che ha portato poi alla sentenza ‘pilota’ nel caso Torreggiani e altri c. Italia nel 2013 e che mi ha visto come protagonista diretto nel formulare la strategia nazionale per rispondere a quanto richiesto dalla Corte europea. Riguardavano, infatti, anche l’organizzazione del tempo della detenzione, spesso vuoto o riempito da alcune attività che avevano più il senso dell’intrattenimento che non quello dell’investimento per una maggiore consapevolezza di quanto commesso e un diverso strutturato ritorno al contesto sociale esterno.

La Commissione nominata dal Ministro della giustizia pro tempore per definire il Piano d’azione da proporre al Comitato per l’esecuzione delle sentenze della Corte – organo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – ha lavorato sia per individuare le strategie per diminuire i numeri delle presenze, sia e fortemente per ridefinire la giornata detentiva e quindi ridare significato al tempo recluso. Il Ministro mi nominò Presidente di tale Commissione e in questa prospettiva abbiamo orientato il lavoro che ha portato poi alla positiva chiusura del caso, con grande risparmio per il nostro Paese e con la ricostruzione della propria immagine nel contesto europeo.

In questi contesti, che ho sommariamente richiamato, l’esperienza teatrale diffusa in molti Istituti penitenziari è stata sempre presentata e apprezzata come elemento di forza e punto di valore del nostro sistema. In effetti, già numericamente emerge l’importanza di questa esperienza, ormai sedimentata e chiede di essere maggiormente supportata fino a divenire una delle modalità specifiche in cui si articola l’esecuzione penale. Ciò proprio per il valore che questa esperienza porta nella riscoperta di ciò che più volte ho definito il proprio “sé” culturale che è componente essenziale per quella consapevolezza che è condizione necessaria per un ritorno positivo alla società.

Più volte è stata ribadita, in Commissioni specifiche sulla pena detentiva e sulla sua esecuzione, la necessità di lavorare per una riscoperta – o in alcuni casi scoperta – di una triplice dimensione del proprio “sé”.

Innanzitutto, la dimensione corporea, proprio perché il corpo detenuto è oggetto di una percezione negativa, oggetto di offesa anche da parte della stessa persona detenuta che a volte porta all’autolesione e alla ricerca di inefficienza in funzione di una ipotetica possibilità di uscita. Da qui la necessità di guardare alle attività sportive non come modo di spendere energie e impiegare tempo, ma anche per riscoprire le proprie possibilità, delle regole necessarie e anche di quelle regole che riguardano la propria efficienza fisica.

In secondo luogo, la dimensione della propria soggettività espressiva e, quindi, culturale, di cui ciascuno è portatore e che riguarda la lettura, la musica, la produzione scritta e l’espressione scenica intesa come momento di riflessione di sé stesso in altro e di aiuto dello ‘specchio’ come modo di guardarsi. Queste attività non possono essere viste solo come ‘aggiuntive’ e, come tale, destinatarie di un’attenzione ancillare, bensì devono costituire un asse fondamentale del progetto di rieducazione personale e sociale che la Costituzione richiede come finalità ineludibile di ogni pena.

La terza direzione è più classica e riconosciuta ed è quella che riguarda l’istruzione e la formazione professionale. In sintesi, la costruzione di un sé” strutturato come premessa per una sostenibilità personale anche sul piano economico nel futuro ritorno.

Ferma restando la positività di questa terza direzione, colpisce la disattenzione che spesso l’Amministrazione dell’esecuzione penale ha mostrato verso le altre due, considerandole come attività positive, ma aggiuntive e non meritevoli, quindi, di una strutturazione stabile e un riconoscimento effettivo all’interno del percorso detentivo.

In realtà l’attività teatrale incide proprio su queste due direzioni, sia nelle esperienze di interpretazione di testi già definiti con realizzazione di spettacoli classici, sia di rielaborazione degli stessi con l’accentuata funzione di interiorizzazione di soggettività altre, sia infine nella costruzione di un teatro gestuale che mette in campo anche la relazione con il proprio corpo e la dimensione prossemica dell’azione.

Non è necessario ricordare qui alcune esperienze di assoluto prestigio che hanno visto compagnie teatrali di persone detenute partecipare a rassegne internazionali, a premi, a riproposizioni delle attività stesse anche in ambito cinematografico. Sono assolutamente note, ma vanno sempre tenute in mente come elementi di valore del nostro sistema; anche per il superamento della ‘rottura’ tra interno ed esterno che molte di queste azioni hanno realizzato nelle città dove si sono svolte.

Vale forse la pena ricordare la rilevanza di esperienze avviate nel passato, sul piano internazionale, e tuttora presenti, quale quella del Living Theatre con la sua capacità di incanalare nell’espressione le tensioni di un presente difficile e conflittuale e trasformare la potenziale rabbia in progetto. Ma soprattutto giova oggi ricordare come l’azione fisica assuma sempre un carattere diverso da una semplice attività, perché – ricordando l’insegnamento di Jerzi Grotowski – «l’attività di bere un bicchiere d’acqua durante una conferenza» è ben diversa se tale attività diventa «osservare la platea, sospendendo il discorso per dare il tempo al conferenziere di pensare e misurare il suo avversario» perché «l’attività del bere si è trasformata in un’azione fisica, vivente». Così la soggettività di vita detentiva si trasforma da mera ripetuta attività in azione vivente attraverso il laboratorio teatrale anche quando questo riprende soltanto la quotidianità stessa e la ripropone in un contesto relazionale. Da qui il contributo che l’esperienza laboratoriale teatrale offre al percorso di esecuzione penale.  E lo offre anche quando accentua la soggettività del protagonista – cosa che potrebbe sembrare ‘pericolosa’ nel contesto di un protagonista abituato a prevalere anche nel crimine. Perché – qui un altro grande è di aiuto, Konstantin Stanislavskij – le azioni del soggetto contestualizzate nello spettacolo perdono la dimensione individualistica e si collocano naturalmente in quella relazionale, frutto di una ‘spoliazione’ e di una riscoperta come parte di un contesto complessivo: anche il monologo diviene momento collettivo.

Gli Stati generali dell’esecuzione penale che si si sono tenuti nel biennio 2015-2016 hanno posto questa centralità positiva dell’attività teatrale, anche se l’Amministrazione penitenziaria non sempre è riuscita a coglierla pienamente. Da qui la necessità di uno strumento normativo di riconoscimento, potenziamento e soprattutto di garanzia di continuità.

Nei documenti del Tavolo 9 – Cultura, istruzione, sport (da me coordinato) si legge che da una rilevazione operata su 113 dei 190 Istituti detentivi risulta che più della metà aveva un’esperienza più che triennale di attività teatrale (di vario tipo). Forte è emersa la necessità di intervenire sulla «formazione del personale per preparare le condizioni di operatività del gruppo teatrale e soprattutto per inserire tale attività all’interno di un complessivo progetto trattamentale». Si legge inoltre: «Dalle audizioni è emersa chiaramente la distinzione delle esperienze in corso in termini di ‘cultura passiva’ intesa come fruizione di attività culturali (dalla lettura di un libro all’assistere a una proiezione cinematografica o a uno spettacolo teatrale) e di ‘cultura attiva’ intesa come diretto impegno del detenuto che ha un ruolo attivo nella costruzione del prodotto culturale (dalla partecipazione al gruppo musicale, all’esperienza di laboratorio teatrale, all’impegno nell’attività sportiva). Molti degli interpellati hanno sottolineato la particolare importanza della dimensione ‘attiva’ della proposta culturale da realizzare nell’esecuzione penale quale elemento di costruzione di un’effettiva responsabilizzazione del soggetto che di fatto delinea il proprio percorso trattamentale, pur in un contesto di supporto, assistenza, monitoraggio e valutazione».

Le raccomandazioni allora formulate dal Tavolo sono state: la necessità di un costante censimento delle esperienze; la necessità di effettiva conoscenza degli spazi esistenti per le attività teatrali; la previsione di tali spazi negli standard che definiscono la progettazione di nuovi Istituti; la definizione di indicatori per la valutazione delle iniziative avviate, al fine di far emergere la positività di molti modelli attuati e di portarli a essere modelli di riferimento generale; l’adozione di un porfolio della propria esperienza, da considerare come informazione essenziale nella valutazione del percorso trattamentale; la centralizzazione tematica di molte micro-esperienze al fine di dare un’impostazione solida ai percorsi culturali.

Queste mie considerazioni vanno ovviamente nella direzione di un pieno appoggio all’iniziativa legislativa che il Parlamento sta discutendo e aprono alla speranza di una sua approvazione.