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Testo completo della replica di Mauro Palma a Milena Gabanelli sul Corriere

Il 15 luglio scorso il Corriere della Sera ha pubblicato la versione ridotta di una lettera di Mauro Palma in commento ad alcune osservazioni di Milena Gabanelli. Qui di seguito pubblichiamo il testo integrale della lettera del Garante nazionale:
 
Sarà la mia iniziale formazione di matematico a portarmi a dare molta importanza ai numeri. I numeri esprimono molto di più di tante considerazioni quale sia l'andamento di un fenomeno e dove si annidino problemi e criticità. Ma per poter svolgere questo ruolo, i numeri devono godere di una proprietà fondamentale: l'oggettività della situazione da cui sono tratti e, al contempo, l'indipendenza della loro registrazione; perchè, altrimenti, possono portare a interpretazioni del tutto fuorvianti. 
 
In questo rischio è incorsa Milena Gabanelli nel suo Dataroom di ieri la quale, a partire da alcuni numeri acriticamente riportati senza alcuna considerazione sulla loro effettiva connessione con la realtà, giunge a considerazioni errate su cui, peraltro, inserisce delle valutazioni che possono far arretrare considerevolmente il dibattito sulla civiltà delle nostre carceri. 
 
Innanzitutto, occorre capire da dove i numeri riportati siano stati acquisiti: dall'insieme degli “eventi critici”, classificati e registrati dal personale degli istituti secondo criteri ampiamente soggettivi. Per esempio, se prendiamo gli eventi avvenuti e documentati visivamente nell'istituto di Santa Maria Capua Vetere e interroghiamo l'insieme degli eventi critici, compulsando la voce “perquisizione straordinaria”, otteniamo che tra le quarantasei ordinate nel 2020 in quell'istituto, la perquisizione del 6 aprile è identica alle altre, è finalizzata “alla ricerca di oggetti e cose non consentite” e l'unico dato su ciò che è avvenuto è costituito dall'aver trovato tre microtelefoni e due lame rudimentali. 
 
Una visione più rispondente, anche se pallidamente, a ciò che è avvenuto, la troviamo riportata un paio di giorni dopo come “violazione delle norme penali” - “resistenza, ingiuria, oltraggio”- e certamente, essendo così registrata, Milena Gabanelli l'ha annoverata in qualcosa compiuto dai detenuti e non già dagli agenti. Dunque, gli episodi vengono configurati e aggiunti nel conto sulla base dello schema interpretativo di chi tali episodi ha riportato e inserito nel sistema. Non solo, ma la connessione tra questi episodi di criticità e la possibilità di avere più ore all'esterno delle sovraffollate camere detentive, oltre a essere stata evidenziata come infondata da studi statistici di settore ben più precisi, sembra portare non alla richiesta di significatività del tempo esterno al luogo di pernottamento e a una evoluzione del modello di sicurezza conseguentemente da elaborare, bensì al ritorno inibente di qualsiasi possibilità di agire. Paradossalmente, tenendo le persone singolarmente chiuse ventiquattro ore, certamente non avremmo avuto alcuna eteroaggressività.
 
Il potere della incapacitazione totale ce lo spiegò Goffman da giovani. Se l’aspetto del rischio prevale su quello della civiltà offuscandola o cancellandola, allora le carceri chiuse del modello Spielberg vanno bene.
 
Ma il prezzo da pagare è la civiltà di una nazione.
 
La capacità di un sistema civile e costituzionalmente orientato è infatti quella di saper coniugare possibilità di autonoma espressione e rispetto rigoroso dell'ordine e della sicurezza. 
 
Ma c'è un'altra cosa che Milena Gabanelli sembra trascurare nel suo rimpianto delle circolari dei colori – che la trovano sola in tale riesumazione all'interno di chiunque abbia almeno osservato per qualche giorno con continuità il sistema detentivo: è il fatto che la posizione di civiltà delle otto ore fuori dalla propria stanza (non a caso chiamata “di pernottamento”) compaia nelle Regole penitenziarie europee, adottate da tutti i Governi del Consiglio d'Europa come proprio impegno sin dal 2006. Se l'Italia è uscita dalle conseguenze della sentenza pilota di violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta, oltre alla tortura, anche i trattamenti o pene inumani o degradanti, è anche perché si è, seppur tardivamente, adeguata a tale previsione. 
 
Il non essere riusciti a dare una connotazione significativa al tempo di vita trascorso fuori da quelle stanze deve spingere a lavorare in questa direzione non certo a tornare a chiuderle. 
 
Mauro Palma