il garante mauro palma

Intervista del Garante Mauro Palma a La Repubblica

Carceri, il Garante dei detenuti Mauro Palma: "In cella solo chi ha commesso reati gravi, fuori chi deve scontare uno o due anni"
 
Oggi in Senato la relazione sui fatti del 2021, da Santa Maria Capua Vetere a Torino. Il Garante lancia due sfide: basta rispedire in Egitto i migranti dopo i casi Regeni e Zaki. E no alla detenzione se sono trascorsi troppi anni dal fatto. Dubbi anche sul nuovo testo dell’ergastolo ostativo, passato alla Camera e oggi a Palazzo Madama
 
di Liana Milella 
 
Roma, 20 giugno 2022  - “Oggi in carcere, in Italia, ci sono 54.846 persone. Per me ce ne potrebbero essere solo non più di 40mila. Non sono buonista, ma la verità è che per un gran numero di loro stare dentro la cella non serve né a loro, né tantomeno alla sicurezza del Paese”.  Il Garante dei detenuti e deI diritti delle persone private della liberto Mauro Palma, nominato nel 2016, è arrivato alla sua ultima relazione al Parlamento che si terrà stamattina al Senato, alle 11, davanti al presidente Sergio Mattarella. Repubblica l’ha letta in anteprima e accende i riflettori su due criticità del sistema: “Le pene molto brevi scontate in carcere sono solo una sottrazione di tempo vitale”, e le pene “scontate dopo molti anni dal fatto, che interrompono spesso vite ormai incamminate sulla via del reinserimento sociale”. Palma,matematico e giurista, ha presieduto per anni a Strasburgo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e il Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale.
 
Allora Palma lei ha messo in piedi, in sei anni, un ufficio che adesso pesa nelle carceri, sui migranti, e sulle (controverse) residenze psichiatriche. Però le stime elettorali fanno prevedere una possibile vittoria del centrodestra alle prossime elezioni. I suoi sforzi non rischiano di finire in mare?
 
“Sia chiaro che il mio lavoro non è stato mai politicamente orientato e sui diritti fondamentali delle persone, sia di chi sta dentro, sia di chi nella collettività chiede sicurezza, credo ci possa essere una convergenza affinché il nostro sistema abbia certezze sulla pena, ma anche sulla sua intrinseca umanità”. 
 
Già sento le critiche di chi sostiene che anche il ladruncolo deve stare in galera.   
 
“È giusto che abbia consapevolezza di ciò che ha commesso e del danno provocato alla vittima, perché è un valore in sé riconoscere che quanto commesso è stato un male. Ma su come far acquisire tale consapevolezza alla persona, non è certo detto che tenerla chiusa in carcere sia la strategia migliore”. 
 
Insomma, lei vorrebbe un carcere molto meno affollato di oggi? 
 
“Va riservato a chi ha commesso reati veramente gravi. Penso a quelli contro la persona, come aver picchiato una donna. Ma anche reati contro i beni pubblici, e certamente tutti quelli che fanno capo alle mafie. Però adesso guardiamo i numeri: in carcere ci sono 3.800 persone condannate a meno di due anni e di queste 1.317 a meno di un anno. La mia domanda è: quale reato grave possono aver mai commesso? E quale programma di rieducazione si può costruire in un tempo così breve, e per giunta in un carcere molto affollato. Per loro è solo un tempo sottratto che li riporterà alla stessa situazione di prima, con forte rischio di recidiva. Ecco perché dico che per la sicurezza della collettività servirebbe una soluzione diversa”. 
 
Ma lei s’immagina la reazione di Salvini, della Bongiorno, della Meloni quando leggeranno queste parole?
 
“M’immagino che siano sostanzialmente d’accordo. E che insieme si possa anche far cambiare quel senso comune, a volte un po’ di pancia, che può portare tante volte ad affermazioni che sembrerebbero sostenere il contrario”.  
 
Dica la verità, lei sul carcere ha una posizione “buonista” come la Guardasigilli Marta Cartabia e quella sua insistente idea della giustizia riparativa.
 
“Non sono buonista neppure per carattere. Non penso neppure che lo sia la ministra. Ma soprattutto non credo che un’idea corretta di giustizia riparativa appartenga alla linea del buonismo. Io parlo sempre di giustizia “ricostruttiva”, cioè quella capacità di rendere giustizia alla vittima e alla collettività, attraverso un percorso che l’autore di un reato deve compiere. E che può anche partire dalla privazione della libertà, e che in certe situazioni deve farlo, ma che deve sempre avere come scopo un recupero positivo verso la collettività, e non una semplice retribuzione di sofferenza rispetto alla sofferenza causata”.
 
È per questo che lei propone di non mandare in carcere chi ha commesso reati anche gravi molti anni addietro? Si riferisce ad alcuni protagonisti della lotta armata arrestati l’anno scorso in Francia e in attesa di estradizione? 
 
“Io parlo in generale. È giusto che chi ha commesso reati gravi risponda alla giustizia. Ma è altrettanto giusto che il modo per rispondere abbia una caratteristica in positivo. Penso ad azioni da compiere e alla valutazione di quanto, può darsi, sia già stato compiuto. Non penso invece che sia utile interrompere dei percorsi già in atto per cominciare dopo molti anni una pretesa rieducativa”. 
 
Ma lei ha presente le reazioni riassumibili in un “finalmente” delle famiglie delle vittime quando Cartabia ha annunciato che gli allora terroristi sarebbero tornati in Italia dopo quasi 40 anni?
 
“Sono reazioni che meritano rispetto. Va comunque capito quale possa essere il segno di un’eventuale detenzione iniziata 40 anni dopo per persone ormai anziane nel solco di quella finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene”. 
 
Un avvocato come Franco Coppi racconta di star trattando in Cassazione un processo per omicidio compiuto 26 anni fa. Ma la ministra Cartabia, con la contestata norma sulla improcedibilità, potrebbe sveltire i processi, anche a rischio che finiscano nel nulla. 
 
“L’esito sarà un doveroso recupero della sensatezza del tempo. La durata del processo e la finalità delle pene sono legate tra di loro, mettere in carcere una persona dopo molti anni, come se fosse la stessa del momento in cui ha commesso il reato, è una scelta rischiosa e spesso sbagliata perché la rapidità attuale dei mutamenti del tempo cambiano anche la persona. Per questo è giusto, che pur con le dovute garanzie, si arrivi rapidamente a definire i fatti e le responsabilità e si vada all’esecuzione della pena”.
 
Lei insiste sul “tempo”, è un leit motiv della sua relazione. Come quando si arrabbia per il processo rinviato al luglio 2023 per le violenze nel carcere di Torino. 
 
“Certo che mi arrabbio. Per due motivi. Innanzitutto per il mancato segnale sulla gravità dei fatti che implicitamente il rinvio porta con sé e poi perché persone imputate di reati così gravi hanno diritto a che si accerti con rapidità se sono effettivamente responsabili”. 
 
Questo vale anche per i gravissimi fatti di Santa Maria Capua Vetere? 
 
“Siamo già a due anni dai fatti e a un anno dal segnale forte inviato da Draghi e da Cartabia con la visita a Santa Maria. L’indagine è complessa e molti sono gli indagati. Quindi in questo caso i tempi più lunghi sono comprensibili. Ma l’essenziale è che si diano chiari segni di svolta in quell’istituto, e devo dire che in proposito sono abbastanza ottimista”. 
 
Mi pare invece che non lo sia affatto per i rimpatri forzati in Egitto, un paese che figura al terzo posto nelle classifiche mondiali per le condanne a morte, ma soprattutto che ha sulla coscienza la morte violenta di Regeni, nonché la lunga carcerazione di Zaki.
 
“Le mie perplessità sono quelle che lei dice. La volontà di non collaborare nel processo Regeni è lampante, così come i continui rinvii che ha avuto a suo tempo la carcerazione di Patrick Zaki ci fa guardare con una certa apprensione all’udienza che si  sta per tenere a Mansoura. Alla ministra Lamorgese dico che l’affidabilità di un Paese non è certificata una volta per tutte da un antico trattato di collaborazione, ma va verificata nel suo mutare nel corso del tempo, e proprio questo mi sembra essere il caso egiziano”. 
 
Ancora il “tempo”, protagonista delle sue riflessioni. E anche di una delle tante leggi mancate, quella sull’ergastolo ostativo. Dalla sentenza della Consulta è passato un anno, adesso il Senato ha avuto altri sei mesi, che sono già diventati poco più di quattro. Ma come per il fine vita ci sono poche speranze di farcela. L’argomento è divisivo. Lei da che parte sta? 
 
“Guardiamo i numeri. Oggi all’ergastolo ci sono 1.838 detenuti. Due terzi sono “ostativi”, e cioè la loro liberazione condizionale dopo 26 anni può essere esaminata solo se collaborano. Per la Corte quest’unico criterio è incostituzionale. Molti ergastolani vivono in un tempo “sospeso”. Trovo che il testo della Camera, pur votato da tutti, renderà più difficile la decisione del magistrato. Sono davvero troppi i parametri previsti, e trovo poco comprensibile spostare da 26 a 30 anni la soglia di pena scontata per poter presentare la richiesta”.
 
È buonista pure con gli ergastolani?
 
“Assolutamente no, sono molto rigoroso, ma rigore e diritti devono camminare assieme".