bollettino 18

IL GARANTE NAZIONALE NEI GIORNI DELL’EMERGENZA COVID-19

3 aprile

Istituti penitenziari

Diamo uno sguardo ai numeri. Anche perché i dati di fine marzo, per quanto riguarda “carcere e probation”, ancora non compaiono sul sito del Ministero della giustizia. Per questo il bollettino del Garante, almeno in questi giorni, finisce con l’essere la fonte a cui, come abbiamo visto, molti articoli di giornale fanno riferimento.

Le persone detenute registrate nelle camere, nel momento in cui scriviamo (ore 16.30) sono 56.830, i posti realmente disponibili rimangono gli stessi dei giorni scorsi (poco più di 47.000). Nonostante il calo, il tasso di affollamento rimane del 121,75% e, come più volte sottolineato, non è omogeneo nel territorio nazionale. Tutti gli organi di monitoraggio dei sistemi penitenziari europei e non solo, siano essi indipendenti o addirittura interni alle amministrazioni stesse, raccomandano che non si giunga mai al 100% di posti ovvupati perché ci può essere sempre una necessità di spostamenti o di emergenze varie che richiedano una qualche flessibilità della sistemazione negli spazi disponibili. Questa possibilità teoricamente avanzata la stiamo vivendo direttamente e siamo a ben un quinto al di sopra di quel 100% che non si dovrebbe raggiungere. Ne consegue che nonostante qualche passo fatto da non svalutare, occorre intervenire in maniera significativa tenendo presente entrambe le dimensioni che l’intervento deve avere: la dimensione della consistenza numerica perché l’affollamento non abbia a superare il 98% della disponibilità; la dimensione della rapidità perché gli interventi di decongestione producano effetti con un ritmo comparabile con quello inquietante e accelerato di ogni diffusione epidemica. Il Garante nazionale ne aggiunge una terza, che qualunque misura venga adottata superi le contrapposizioni specifiche attorno alle modalità dell’esecuzione penale e si concentri sul bene specifico da tutelare in questo momento: un bene essenziale, nudo nella sua connotazione, che è quello della salute delle persone, quelle che sono ospitate nelle strutture privative della libertà, quelle che in tali strutture ogni giorno lavorano con professionalità e comprensibile apprensione, quelle che all’esterno di queste strutture potrebbero subire riflessi gravi qualora l’epidemia all’interno dovesse svilupparsi. Questa attenzione è ancora più importante poiché giungono frequenti notizie dell’incidenza che l’assenza o l’inidoneità del domicilio proposto dalle singole persone detenute stia di fatto falcidiando le domande di detenzione domiciliare, che pure avevano superato tutti gli altri ostacoli posti dall’articolo 123 del decreto-legge n. 18/2020. Non sfugge a nessuno che ciò non abbia nulla a che fare con la pericolosità del richiedente o con la sua condotta, bensì con la sua solidità o fragilità sociale ed economica. Un esito che di fronte al bene che tale norma vorrebbe tutelare lascia sconcertati.

Se da più parti si sente ripetere l’essenzialità del ritrovarsi coesi rispetto a una imprevista e tuttora indomabile variabile aggressiva che attraversa la vita di ogni giorno sul piano sanitario e sul piano economico, va affermato il principio che tale coesione coinvolge tutti, chi è al di là e chi è al di qua di quel muro.

Il secondo numero a cui vogliamo guardare oggi è quello di 42 madri con 48 bambini. Anche considerando che 26 madri con relativi figli sono negli Istituti a custodia attenuta (Icam) e il resto nelle sezioni specifiche dell’usuale carcere, questo può essere il primo piccolo ma significativo numero a cui guardare per una attenzione centrata sulla vulnerabilità delle persone. Per simmetrica vulnerabilità, 986 persone detenute hanno più di 70 anni. Una serie di patologie presenti in maniera cospicua all’interno della popolazione carceraria po' dare indicazioni per misure mirate che prendano atto di ciò che oggi viene richiesto perché quella tutela, costituzionalmente definita «fondamentale», sia concretamente effettiva.

Ma la discussione attuale si concentra anche sulla possibilità di trasformare in un’altra forma di esecuzione penale, centrata sulla domiciliarizzazione, l’ultima parte della pena detentiva in carcere: bisogna riflettere sul fatto che 15.716 persone sono in quell’affollamento detentivo con un residuo di pena inferiore ai due anni e per il nostro ordinamento avrebbero potuto accedere già da tempo a misure alternative. Parallelamente, 17.468 persone sono anch’esse in carcere senza alcuna sentenza definitiva (di questi 8.854 sono ancora in attesa del primo grado di giudizio).

Sono numeri che diamo per indicare non che tutti quanti potrebbero in ipotesi non essere più dietro alle sbarre, ma che i settori su cui intervenire, discrezionalmente ma consistentemente, sono ampi. E che i nuovi passi normativi da assumere hanno ampio spazio per poter essere significativi.

Perché a questi numeri dobbiamo aggiungerne altri apparentemente piccoli, ma densi di drammaticità in sé e drammaticità potenziale. Ieri si è suicidata una persona detenuta a Siracusa. Ora, mentre scriviamo, giunge notizia del sedicesimo suicidio (nella quattordicesima settimana), questa volta a Rebibbia. Sempre ieri un assistente capo di Polizia penitenziaria si è suicidato a Cantù. E mentre i giornali hanno riportato la notizia del primo decesso di detenuto positivo al Covid-19 – ultrasettantenne e in attesa di primo giudizio –, sono ancora vive le immagini dell’esequie dell’agente di Polizia penitenziaria morto per Covid-19 e salutato dai suoi compagni dell’Istituto di Opera.

Sono questi ultimi numeri a darci l’immagine di una situazione tuttora contenuta, soprattutto tra la popolazione detenuta (meno di 30 casi), ma a rischio di potenziale esplosione in particolare qualora non si realizzi un effettivo isolamento delle persone soggette a tale misura sanitaria che, tra sintomatiche e non, raggiungono già qualche centinaio.

Segnaliamo, infine, due documenti. Il primo relativo alla custodia cautelare, terreno finora di nessun intervento, nonostante coinvolga il 30% della popolazione detenuta. In data 1° aprile 2020, la Procura generale della Cassazione ha invitato i Pubblici ministeri a considerare l’esigenza di tutelate la salute pubblica, alla luce dell’emergenza in atto, quale priorità e ha suggerito l’opportunità di valutare le diverse opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione per ridurre la popolazione penitenziaria, anche attraverso l’interpretazione estensiva o analogica, delle disposizioni normative in materia di libertà personale. https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/04/Nota_PG_carceri.pdf

Il secondo documento è il Parere del Consiglio superiore della magistratura sul decreto-legge n. 18/2020, detto Cura Italia, in cui il Consiglio «auspica soluzioni volte a ridurre il sovraffollamento delle carceri, ivi compresi interventi volti a differire per la durata dell’emergenza, l’ingresso in carcere di condannati a pene brevi per reati non gravi».

https://csmapp.csm.it/documents/21768/92150/parere+dl+18+del+2020+cura+italia+26+marzo+2020/51a8d452-8a1e-b3ef-f27a-2f56408dc772

 

Rete internazionale

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea oggi ha reso nota la sua decisione sul ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione contro Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca in tema di ricollocamento di 120.000 richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia. La Corte ha dato ragione alla Commissione, stabilendo che i tre Paesi, omettendo ripetutamente di indicare un numero adeguato di richiedenti asilo da ammettere nel proprio territorio, sono venuti meno agli obblighi derivanti dalla Decisione del Consiglio 1201/2015, che stabiliva un sistema di ricollocamento obbligatorio.